martedì 13 aprile 2010

Quasi una fotografa





La prima volta che ho preso una macchina fotografica in mano avevo otto anni. La macchina era poco più di un giocattolo, ma faceva foto vere, seppure di forma quadrata. Aveva un flash, che si ruppe quasi subito, e una doppia esposizione che mi creava più dubbi che altro. Comunque era una macchina fotografica quasi vera, e, soprattutto, era mia. Da allora non ci fu gita, scampagnata o passeggiata sulle Mura che non venisse da me immortalata.

I primi rudimenti che mi furono insegnati, in famiglia, contribuirono a confondermi ancora di più le idee. Tenere ferma la macchina mi pareva impossibile. Appoggiarmela al petto per impedirle di muoversi mi aiutò un poco, e, beh… se non si dà troppa importanza a cosa si sta fotografando può essere quasi una soluzione. Anche sulla scelta dei soggetti non avevo le idee molto chiare, visto che mi ostinavo a riprendere muri, mari e alberi invece che persone. Che ricordi avrei mai potuto trattenere di quelle gite, se non fotografavo la gente?

Nei dodici anni che seguirono collezionai scatole su scatole di orribili scatti mossi, sovraesposti, nebulosi: quadrati di caos di cui mi piacerebbe dire che ho smesso di vergognarmi. Mi era ormai ovvio che stavo sbagliando qualcosa, ma cosa? la risposta mi sfuggiva (e ancora oggi, se mi capita di intravederla, cambia strada apposta).

Nel frattempo la scuola era finita, le gite anche, e la noia regnava sovrana. Di quegli anni ho pochissime fotografie, e, soprattutto, non mi divertivo più molto a farle, e ancor meno ne ero soddisfatta.

Fu grazie alla rete che decisi di passare al digitale, per condividere le immagini con i miei nuovi amici virtuali. Ma lo stesso non mi divertivo, e se mi divertivo, mi dimenticavo completamente di fare foto. Però quella macchinetta digitale acquistata d’impulso circa tre anni fa fu una specie di segno del destino. Pochi mesi dopo, una psicologa che mi seguiva mi consigliò, sapendo che mi piaceva scrivere e avevo quindi un lato “creativo”, di provare a entrare nel gruppo fotografico della Salute Mentale.

Alla mia prima uscita con il gruppo, non avevo la mia macchinetta. Avevo traslocato da poco ed era ancora impacchettata in qualche scatolone chissà dove. Me ne diedero una di quelle in dotazione alla Asl, tra le più semplici, insieme con qualche buon consiglio. Mi si spalancò un mondo. Un mondo fatto di colori, fiori, insetti, e tante altre minuzie che fino ad allora non avevo degnato di uno sguardo.

Inutile dire che, una volta a casa, mi precipitai a spacchettare ogni scatola che mi trovavo davanti, fino a che la mia macchinetta ricomparve.

Da allora ho scattato quasi senza soluzione di continuità per due anni almeno, e intanto imparavo qualche rudimento di fotoritocco, e a montare le immagini secondo le suggestioni che esse e i luoghi dove le avevo catturate mi ispiravano.

Da tutto questo ho imparato, se non ad essere una brava fotografa, che la vita ci porta per strane strade in strani luoghi, verso mete che mai ci saremmo immaginati.



2 commenti:

  1. Una mia amica che fotografa da anni, dice che scattare fotografie significa amare la vita, in ogni sua forma. Io non so se sia così, a me è sempre piaciuto farlo, ma lo facevo senza particolare impegno. In questi ultimi mesi sta diventando una fissa, una specie di droga. Forse perchè data la mia situazione fisica non posso fare tutto quello che vorrei.
    Il tuo post è splendido, carissima Mariolì, mi sono emozionata sul serio nel leggerlo.
    Un baciotto.
    Fra

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  2. una mia amica che fotografa street-life da anni, mi dice che la fotografia è amore per la vita. Io non so se sia così, mi ci sono avvicinata da poco (anche se mi è sempre piaciuto farlo), fatto sta che sta cominciando a diventare importante per me.
    Il tuo post è splendido, carissima Mariolì, mi sono sinceramente commossa nel leggerlo.
    Un baciotto.
    Fra

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